I primi vent’anni con lei li ho passati senza sapere che fosse una sopravvissuta, lo aveva rimosso. Perché quando subisci qualcosa di orribile, che ti uccide dentro, l’unica difesa è cancellare tutto, dimenticare e andare avanti. Ma qualcosa rimane sempre e, quando riaffiora, torni a morire.
È successo. Otto anni fa è tornato tutto e, per sopravvivere, lo ha raccontato a me. E io ho iniziato a morire dentro.
Ogni notte un incubo, ognuno dei quali restituiva un po’ di vita a lei e ne toglieva un pezzetto a me. Perché io ero lì, accanto a lei, ed era come rivivere quel maledetto giorno al posto suo. Ogni notte, per mesi. Mentre lei tornava a dimenticare, io mi logoravo al pensiero di quello che le era accaduto, oltre che soffrire per ciò che faceva ogni giorno pur di raggiungere il suo obiettivo. Perché l’istinto di sopravvivenza è egoista: “Mors tua vita mea”.
Alla fine lei è sopravvissuta al suo dramma per la seconda volta, io ai suoi incubi, per la prima. E vorrei dire che ormai tutto è finito, ma mentirei. La vita va avanti e, per carità, non mi lamento, ma prosegue da sopravvissuti che, ogni tanto, rischiano di morire, ancora, salvo poi “sopravvivere” nuovamente.